IL BLOG DEL LIBRO DI GIAN MICALESSIN PUBBLICATO DA BOROLI EDITORE
Un avvincente viaggio nei complotti dei servizi segreti pakistani che negli anni 80 aiutano la resistenza anti-sovietica in Afghanistan per conto della Cia alimentando, al tempo stesso la nascita di un’internazionale islamica ferocemente antioccidentale. Il racconto di come spie, generali e scienziati di Islamabad rubano il nucleare all’Occidente, costruiscono la prima atomica islamica e ne rivendono i segreti a Iran, Libia e Corea del Nord. Una spy story lunga 30 anni ambientata nel paese dove Osama Bin Laden fonda Al Qaida. Un libro fondamentale per comprendere le mosse di servizi segreti e apparati deviati che minacciano di distruggere il Pakistan e consegnare i suoi arsenali nucleari al terrore integralista.

lunedì 22 marzo 2010

LA PREFAZIONE DI NICOLO' POLLARI

Il nuovo libro di GianMicalessin ha un merito, tra i tanti, quello di attraversare la storia mentre quest’ultima fatica ancora ad acquisire forma e concretezza e di fornire, senza mezzi termini, un quadro nitido e fedele degli eventi dell’ultimo decennio, risalendo nel tempo a cause ed effetti per scandagliare il terreno geopolitico asiatico e restituirlo al lettore nella sua cruda nudità. I noti fatti dell’11 settembre hanno cambiato il mondo. Il terrorismo islamico si era già manifestato in precedenza in tutta la sua efferatezza, ma la portata di quegli attentati alle Torri gemelle e aWashington, addirittura sul Pentagono, rappresentarono una dichiarazione di guerra che colpiva, di sorpresa, non solo la più grande potenza del mondo, gli Stati Uniti, ma tutta la comunità internazionale, anch’essa subito investita dalla minaccia globale del fondamentalismo islamico. L’invasione, da parte degli Usa e della Coalizione, dell’Afghanistan prima e dell’Iraq dopo, che conseguì agli attentati, ha aperto nuovi focolai che sembrano, per varie ragioni, ricordare in parte l’esito infausto dell’occupazione americana del Vietnam. Guerre senza fine che appaiono non vincibili. Il Grande scacchiere asiatico conosce, tuttavia, giocatori che hanno saputo e sanno abilmente dissimulare il proprio ruolo e che, in realtà, determinano gli eventi molto più di quanto possano le superpotenze. Il Pakistan è senza dubbio uno di questi. Non è il solo, però ha sicuramente avuto un ruolo di rilievo nella storia dell’Afghanistan, nella nascita del regime talebano e del fondamentalismo islamico nel medesimo Paese. L’Afghanistan si rivela negli anni terra inespugnabile. Fino a oggi, nessun esercito o forza militare straniera è riuscito a conquistarlo o a lasciarlo da vincitore. Non vi riuscirono i sovietici, non ci sono riusciti gli americani. Anni di guerra non hanno mutato le dinamiche interne e i rapporti di forza con i Paesi contermini. Il sogno della democrazia rimane un mito occidentale, non esportabile e che può evolversi solo naturalmente e dal basso in un’area che possiede una forte identità storico-culturale. L’Afghanistan, pur distrutto nel profondo della sua cultura e della sua storia, appare sempre integro e monolitico ai più; in realtà, come evidenziato da Gian Micalessin, è ‘terra di nessuno’ e, allo stesso tempo, di tutti. Paese ‘cuscinetto’ negli anni dell’invasione sovietica tra le sfere di influenza delle due superpotenze, sfogo degli interessi commerciali ed economici delle nazioni vicine, da mantenere necessariamente in condizioni incontrollabili da parte della comunità internazionale al fine di consentire ai medesimi il prosieguo dei propri traffici e interessi politici. Non dimentichiamo il traffico dei traffici: la droga, merce economicamente pari, se non superiore, al petrolio. In quella terra, valore di scambio acquisterà anche la vita umana. Si pensi all’uso strumentale dei rapimenti di cittadini stranieri a fini apparentemente politici, ma soprattutto economici. Ed è così che, negli anni Ottanta, subito dopo l’avvenuta rivoluzione khomeinista in Iran, che colloca ai potere l’ayatollah sciita, enormi finanziamenti confluiscono dall’amministrazione americana al Pakistan al fine di fermare l’avanzata sovietica. Finanziamenti su cui, come rivela l’autore, gli Stati Uniti perdevano il controllo non appena consegnati e che venivano utilizzati non già per alimentare un’opposizione qualsiasi, ma per rafforzare una guerriglia islamista che si formerà culturalmente nelle madrasse islamiche in Pakistan e militarmente nei campi di addestramento tra Pakistan e Afghanistan. E gli Stati Uniti, pur consapevoli dei rischi, erano costretti a chiudere un occhio di fronte alla minaccia allora ritenuta, a torto o a ragione, più grande: l’invasione sovietica. Il doppio gioco del Pakistan rimane il male minore per gli Stati Uniti anche a seguito del controllo talebano dell’Afghanistan e dell’appoggio talebano ad al-Qaida. Il Pakistan è un Paese dove si governa a forza di colpi di Stato e dove l’etnia pashtun ha in realtà il controllo delle istituzioni. Lo Stato nello Stato cuscinetto della frontiera del Nord e delWaziristan, interno al Pakistan, è lì apposta, al fine di mantenere vivi, liberi e incontrollabili i rapporti con l’Afghanistan, ed è sempre lì che trovano rifugio i terroristi islamici, come in precedenza i guerriglieri che combattevano contro i sovietici. I legami culturali e ideologici attraversano i confini, come spesso accade in quelle regioni dove la convivenza tra diverse etnie non è ancora o affatto digerita.Un altro esempio è l’Iraq, ma senza andare troppo lontano basta guardare alla ex Iugoslavia, dove, a differenza dei Paesi prima citati, non è adducibile neppure la scusa della sopravvivenza di un regime tribale a giustificare le difficoltà di convivenza. Il Pakistan rimane comunque una chance per arginare il pericolo islamista. Facendo leva su quelli che sono i suoi rapporti interni tra le diverse componenti politiche e, dunque, sui suoi interessi a mantenere l’appoggio economico occidentale e, soprattutto, sulle sue relazioni con l’India. Ed è proprio da ciò che nasce il bisogno pakistano di dotarsi di armi nucleari. La vera controparte è quel vicino insidioso e sempre più potente economicamente; al-Qaida e il terrorismo islamico sono solo un mezzo, di cui purtroppo parte della popolazione condivide l’agenda. In tutto questo, il ruolo dei servizi segreti occidentali è un duro lavoro di stretta collaborazione, per quanto possibile preventivo e contrastivo del groviglio di minacce che accompagnano la piovra maggiore, il terrorismo islamico, soggetto da tempo autonomo ed estremamente multiforme e multifacce. L’esempio indicato da Micalessin della nave Bbc China è un caso di scuola per gli addetti ai lavori degno di approfondimento. E numerosi sarebbero i casi di scuola che si potrebbero indicare ai margine del racconto qui riportato. Gian Micalessin ha saputo focalizzare l’attenzione, con l’ausilio di quella rara conoscenza diretta delle cose, dei luoghi e delle persone, che da sempre lo contraddistingue come «inviato di guerra», sul ruolo, molte volte oscuro e fortemente ambiguo, giocato da alcuni dei personaggi più potenti della nomenklatura di Stato pakistana sulle sorti della vicina e tormentata nazione afghana. Con questo suo nuovo, entusiasmante libro, intitolato Pakistan, il santuario di al-Qaida. Gli 007 di Islamabad fra traffici nucleari e terrore islamico, e che fa seguito a un precedente lavoro sulla questione afghana (intitolato, significativamente, Afghanistan, ultima trincea. La sfida che non possiamo perdere, edito nel 2009), Micalessin introduce il lettore, con vera maestria, in una realtà – sociale, economica, politica e militare – che sembra un romanzo, ma che, purtroppo, nella sua sostanza, romanzo non è. È, infatti, la dura e cruda realtà delle complesse e, a volte, allucinanti dinamiche di una storia internazionale contemporanea. Il testo, alla sua prima lettura, lascia, per questa sua speciale struttura narrativa, il sapore del thriller, della spy story. In realtà, esso è un attento, preciso, meditato reportage di guerra. Un libro, dunque, ‘da addetti ai lavori’; e, forse, meglio ancora, ‘per addetti ai lavori’, cui non è possibile scrivere la parola fine, se non in fieri; un volume che stimola altre letture sul tema, fa sorgere il desiderio di approfondire, di integrare, di capire ancora e, se possibile, di più. La grande abilità dell’autore è, anche in questo nuovo lavoro, quella di riuscire a legare tra loro un’infinità di singoli episodi, di singoli accadimenti storici, non di rado cruenti e crudeli, come solo la guerra può provocare, trovandone il nesso logico e tattico più remoto e significativo. Ricostruendo così, alla fine, un quadro strategico complessivo nitido e inequivocabile. Al centro della narrazione, in particolare, vi sono le trame, le mire, le ambizioni personali unite ai disegni di egemonia politico-militare regionale di alcuni servizi segreti dello scacchiere asiatico. E vi è la trama, che parte da molto lontano, sia geograficamente sia storicamente, di una corsa, tanto pericolosa quanto ostinata, di alcuni poteri forti locali al dominio della tecnologia bellica nucleare: la bomba atomica di regime. Si delineano, quindi, il processo di islamizzazione e radicalizzazione dell’Afghanistan e la conquista del potere da parte degli studenti talebani, così come pure il progressivo insinuarsi delle più estreme dottrine jihadiste e al-qaidiste nelle menti dei principali e più potenti uomini della nomenklatura pakistana. Sullo sfondo, sempre presente, indirettamente, nello scenario geopolitico del primo decennio degli anni Duemila, la tragedia dell’attacco proditorio alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e l’avvio, dopo di esso, e per effetto di esso, con il presidente GeorgeW. Bush, della Global War on Terror. Una guerra globale e senza quartiere ad al-Qaida, ai suoi capi, e a chiunque offra appoggio o sostegno al terrore internazionale. Infine, ‘il rischio assoluto’, che viviamo ai giorni nostri, e che è, poi, l’incubo di tutta la comunità dell’intelligence internazionale, e non solo della Cia: l’acquisizione della disponibilità di armamenti nucleari da parte di entità statali e, soprattutto, non statali soggette al controllo e/o al potere di imperio di singoli uomini, animati da sentimenti irriducibili di odio e di volontà dirette alla distruzione di massa del prossimo; in particolare, di un Occidente ‘infedele’, ‘corrotto’ e/o comunque ‘non allineato’ ai dettati ideologico-religiosi, alla intransigenza, diciamo pure al fanatismo, dell’Islam estremizzato. Si è, dunque, in presenza di una strategia di aggressione che è senza esclusione di colpi e senza frontiere. La holding al-qaidista, in pratica, si è andata progressivamente organizzando, nel tempo, creando proprie ‘filiali’ e ‘cellule’ in tutte le nazioni della comunità internazionale, utilizzandole ora a fini logistici e/o di approvvigionamento finanziario e tecnico-operativo, ora a fini addestrativi, ora in termini direttamente militari e operativi. Il metodo della guerriglia è stato così esportato da Baghdad a Kabul, da Islamabad aMumbai, da New York aMilano, ovunque, insomma, se ne sia ravvisata l’opportunità tattico-strategica; senza soluzione di continuità, e con i metodi di volta in volta ritenuti i più cruenti e/o i più efficaci, al fine dell’obiettivo ultimo della ‘causa’: creare terrore, impaurire le masse e costruire, alla fine, un unico ‘Grande Califfato internazionale’. La volontà di potenza di questo nuovo movimento politico-religioso internazionalista e ‘rivoluzionario’ afferma, in definitiva, e con fatti (che grondano sangue), che ‘gli alti fini’ che persegue giustificano i mezzi concretamente utilizzati: la strage di innocenti e inermi civili, di donne, di anziani o di bambini, per esempio. La loro esecuzione e decapitazione. O, nei casi ‘meno drammatici’ – si fa per dire – almeno il loro rapimento strumentale al fine della realizzazione di un eventuale ‘scambio di prigionieri’ con il nemico: gli americani (e, più in generale, tutti gli occidentali non aderenti all’Islam estremista). L’America e l’Occidente, dunque, si trovano a dover fronteggiare, da dieci anni a questa parte, in modo più aggressivo e virulento di prima, una ‘guerra di fatto’ da altri condotta con metodi, tattiche e strumenti non convenzionali contro un nemico praticamente invisibile. Un nemico che si può celare dietro chiunque, in casa o all’estero. E che, per quello che gli esempi citati ci insegnano, sembra determinato a ricercare, per poi utilizzare, gli strumenti di morte più micidiali e distruttivi. La storia, fino a oggi, ha dimostrato l’esistenza di enormi difficoltà nella ricerca di un ragionevole e affidabile canale di dialogo con questo formidabile e inafferrabile avversario, al fine di concordare un possibile, accettabile e duraturo ‘trattato di pace’. Questo è un dato di fatto strategico di cui gli stessi jihadisti, in definitiva, sembrano vantarsi. Nessuna tregua, nessuna pietà per il nemico. Se il presente è tutto da immaginare, il futuro è tutto da scrivere. Se è vero che errori sono stati commessi nell’affrontare l’indecifrabile amalgama che ha colpito come uno tsunami l’intero globo, giungendo perfino a modificare la percezione dello straniero e dell’immigrato nei Paesi di chiara tradizione democratica, è anche vero che di successi ce ne sono stati tanti, piccoli, invisibili, spesso non noti, ma tali da arginare la minaccia. Il più grande errore sarebbe non fare tesoro dell’esperienza acquisita. I fatti, anche più recenti, dimostrano che le agende internazionali non si governano con le ideologie nonostante siano determinate dalle ideologie stesse. Il teatro afghano richiederà la massima attenzione, nonché la presenza occidentale ancora a lungo, come la richiederanno anche gli altri scenari aperti e difficili a chiudersi. Non è in gioco, come erroneamente si pensa, il dominio del mondo, almeno non più; lo è la sopravvivenza di un sistema democratico che consenta a ogni cittadino di prendere l’autobus o la metropolitana senza timore di non tornare a casa. A Gian Micalessin riconosciamo il grande talento di saper attraversare la storia e descriverla allo stesso tempo con il distacco del grande narratore; a lui l’arduo compito di scrivere un nuovo capitolo che, tutti ci auguriamo, parli di pace e di progresso per un popolo da decenni privato dei suoi diritti fondamentali in virtù di totalitarismi di pensiero e di governo.

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